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E se il lattosio per gli intolleranti fosse un'opportunità, più che un problema?

Sapermangiare

Siamo abituati a trattare il lattosio come quel problema che allontana gli intolleranti dal latte e da alcuni suoi derivati, facendo loro perdere in questo modo tutta la serie di vantaggi che un consumo di latte può determinare.

Il latte, probabilmente a causa del suo contenuto di lattosio e oligosaccaridi, è bifidogenico, stimola cioè la produzione di bifidobatteri determinando così un microbiota intestinale più salutare. Questo vale per tutti, ma soprattutto per gli intolleranti.

Ecco la spiegazione tecnica: la maggior parte di chi digerisce male il lattosio può consumarne senza sintomatologia fino a 12 g (250 ml di latte) tutti in una volta e gran parte degli altri possono consumare senza sintomatologia la stessa quantità se somministrata in due frazioni a distanza di tempo. In queste persone con ridotta attività della lattasi (tra il 50 e il 60% degli adulti italiani e il 70% nel mondo) il lattosio arriva nell'intestino poco digerito, incontra il microbiota intestinale e viene idrolizzato (ovvero digerito) in glucosio e galattosio dalla (fosfo-) β-galattosidasi di cui sono dotati i batteri, i quali utilizzano glucosio e galattosio per le loro funzioni, rilasciando come prodotti finali alcuni gas (CO2, H2 e CH4) e alcuni acidi grassi a catena corta particolarmente importanti per la salute (principalmente acetato per circa il 50%, e poi propionato e butirrato). Questi acidi grassi a catena corta vengono quindi in parte utilizzati come substrato energetico, sia da parte del microbiota che da parte delle cellule del colon (colonociti). La parte rimanente viene assorbita e trasportata al fegato, dove può svolgere ruoli di regolazione metabolica.

In pratica il lattosio, che nel caso degli intolleranti resta non digerito, dopo essere arrivato nel colon agisce come substrato per la flora intestinale, potenziandone l'attività saccarolitica (ovvero di utilizzazione degli zuccheri) e favorendo così la crescita di bifidobatteri e lattobacilli, i cosiddetti "batteri buoni". In altre parole, il lattosio, per chi non lo digerisce, è un prebiotico.

Poiché i bifidobatteri intestinali tendono a diminuire con l'età, così come la capacità di digestione del lattosio, questo effetto prebiotico del lattosio può avere un ruolo importante lungo tutto l'arco della vita, ma soprattutto nell'anziano, contrastando il fenomeno della immuno-senescenza.

È quindi lecito attribuire al lattosio la caratteristica di prebiotico condizionale, vale a dire "in funzione della capacità dell'individuo di digerire il lattosio". Maggiore sarà la quantità di lattosio che arriverà indigerita nel colon, maggiore sarà l'effetto prebiotico.

Da non trascurare anche il fatto che il latte, oltre agli altri nutrienti, contiene buona quantità di calcio e la contemporanea presenza di lattosio (tal quale, non idrolizzato) ne aumenta l'assorbimento. Ecco perché la mal digestione del lattosio, ritenuta finora la problematica principale per il consumo di latte, assume la veste di una grande opportunità, alla luce delle evidenze scientifiche.

In conclusione, la gran parte delle persone con ridotta capacità di digerire il lattosio riesce a consumare senza sintomatologia rilevante (e con beneficio per il microbiota) una tazza di latte, soprattutto se accompagnata da altro cibo, come avviene secondo le abitudini italiane principalmente a colazione. Privarsi completamente di questo prezioso alimento, in assenza di sintomi decisamente gravi, può essere un errore per il benessere dell'intestino stesso.

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